AGLI ANTIPODI DELL’ARCHEOLOGIA CHIUSINA

 

I preparativi per la Guerra di Siena e lo spoglio di «molte anticaglie» cittadine

Ipotesi sul ruolo del futuro «cardinale Montepulciano» Giovanni Ricci

 

di ROBERTO SANCHINI

 

Il «Cardinale Montepulciano», Giovanni Ricci, nacque nel 1497 a Chiusi, dove i genitori, Pierantonio, mercante di Montepulciano, e Marietta, «si erano rifugiati per sfuggire alla peste e alla guerra». Di famiglia agiata, trasse profitto dagli insegnamenti di computisteria impartitigli dal padre per la sua ascesa sociale a Roma, alla corte d’illustri prelati (i cardinali Anton Maria Ciocchi Del Monte e Alessandro Farnese) e poi all’interno dell’amministrazione pontificia «per esser huomo che particolarmente ha molta pratica in queste cose pecuniarie dello Stato Ecclesiastico». Fu nominato Tesoriere generale della Camera Apostolica dopo l’ascesa al soglio pontificio di Giulio III del Monte, che comunque, ritenendolo «persona atta, per la celerità colla quale è solito di andare e tornare», non rinunciò a farlo «continuamente correre in poste, hora in Spagna, hora in Francia, et in altri lochi e diversi principi», assegnandogli responsabilità amministrative e missioni diplomatiche di grande importanza per conto dello Stato o della propria casata.

Più volte vicino alla tiara, come nel 1565 quando in Conclave ottenne trenta voti sui trentaquattro necessari, le fonti lo ricordano non tanto per le sue qualità pastorali e di fede bensì come uomo di governo integro, dotato di particolare talento per gli affari, la finanza e l’amministrazione, ma anche capace di muoversi con abilità nelle corti europee, che lo stesso imperatore Carlo V d’Asburgo giunse ad appellare «carissimo e amatissimo amico»; inoltre Ricci è passato alla storia per le prestigiose residenze che si fece costruire e le collezioni d’arte e di antichità con cui le abbellì, non risparmiandosi di procurare ai sovrani dell’epoca arredi e servizi di valenti artisti.

Pur privo di formazione umanistica – per questo l’ambasciatore spagnolo a Roma dirà di lui: «No tiene ningunas letras» – all’ombra del mecenatismo dei Farnese aveva stabilito contatti con architetti, pittori, scultori illustri e saputo circondarsi di letterati capaci di guidarlo nelle scelte artistiche, fra cui quel Giacomo Marmitta, poeta, che gli fu segretario. Ebbe, nella cerchia degli amici, intellettuali quali Giovanni Della Casa, Pietro Aretino, Paolo Manunzio, Annibal Caro e, più tardi, Filippo Neri come guida spirituale.

Se a Montepulciano fece costruire il Palazzo Ricci, lungo la via omonima e a poca distanza da Piazza Grande, su progetto di Baldassarre Peruzzi, è a Roma che si trovano le testimonianze più importanti della sua committenza e nello stesso tempo della creatività dell’architetto Nanni di Baccio Bigio, pseudonimo del fiorentino Giovanni Lippi, che fu da lui incaricato della progettazione e la ristrutturazione di vari edifici: l’appartamento del Maestro di Camera di Sua Santità in Vaticano, divenuto in seguito la sede dell’attuale Prefettura della Casa pontificia, decorato da vari artisti della cerchia del Vasari; l’ex casa di Antonio Sangallo il Giovane in Via Giulia, che assieme ad altre finitime fu trasformata nel lussuoso Palazzo Ricci (proprietà Sacchetti dal 1649); infine la villa al Pincio, con annesso giardino monumentale, divenuta famosissima dopo essere passata ai Medici, oggi sede romana dell’Accademia di Francia.

Notorietà ancora maggiore gli venne dalle ricche ed eterogenee collezioni che seppe creare: una quadreria con un centinaio di ritratti di uomini illustri e, tra l’altro, due Hieronymus Bosch; molte antichità, in piccola parte ereditate da Antonio da Sangallo contestualmente all’acquisto della casa in Via Giulia; le predilette tavole di marmo intarsiato; gli animali, in particolare pappagalli (se ne era appassionato durante la prima missione in Spagna e amava regalarli); le piante, come le essenze rare che faceva coltivare nella villa sul Pincio; infine una gran quantità di oggetti esotici, quasi sempre orientali, cinesi o indiani, che aveva scoperto in Portogallo, come i vasi raffigurati da Francesco Salviati nella sala dell’Udienza nel palazzo di via Giulia e soprattutto le porcellane, di cui lanciò la moda a Roma come sostitute dell’argenteria. Era molto abile ad assicurarsi i pezzi che lo interessavano e a trarne profitto. Comprava colonne di materiali pregiati, utilizzandole in parte per i suoi palazzi e cedendo ad altri quelle che non gli servivano, mentre destinava i pezzi danneggiati alle sue amate composizioni a intarsio.

Quali tracce sensibili lasciò in Val di Chiana l’attivismo del prelato, oltre al palazzo di famiglia?

Innanzitutto l’erezione di Montepulciano a diocesi (10 novembre 1561), di cui il Ricci è considerato il principale artefice assieme a Cosimo I de’ Medici. Tale erezione portava a termine un lungo processo di autonomia dell’antica pieve arcipretale di Santa Maria Assunta, che sin dal 1478 era stata dichiarata «nullius dioecesis», direttamente soggetta alla Santa Sede e non più al vescovo di Arezzo, con giurisdizione comprendente la facoltà di conferire gli ordini minori e di usare le insegne episcopali estesa a tutto il territorio di Montepulciano. Per inciso: della collegiata poliziana il Nostro era divenuto arciprete nel 1533 e quando essa fu elevata al titolo di cattedrale vi esercitò le funzioni di amministratore apostolico; assicurò inoltre alla nuova mensa episcopale le rendite della ricca Commenda della Badia a Ruoti, prima a lui spettanti.

A Chiusi, gli oltre due lustri in cui vi ricoprì analoghe funzioni non sembra aver lasciato traccia, se non più di quindici anni dopo, con la perdita di ben dodici parrocchie per effetto della nascita della diocesi poliziana; del resto sorte simile ebbe a subire quella di Arezzo. In effetti il periodo chiusino lo vide quasi sempre fuori sede, perché già il 9 maggio 1544 era nunzio e collettore in Portogallo, incarico che lo impegnò sino al maggio 1550 per poi vederlo tornare a Roma solo il 4 gennaio 1555, trattenuto in Spagna da impegni ulteriori. Ciò nonostante si presume che le sue qualità di uomo di governo egli possa averle dimostrate anche a Chiusi, compresa la capacità di amministrare a distanza sapendo scegliere i propri collaboratori. Oltretutto le sue radici chianine, per nascita e residenza di famiglia, non l’avranno visto sprovveduto sulle necessità del patrimonio della diocesi. Di sicuro lo mantenne produttivo se i suoi successori nella carica episcopale, Figliuccio Figliucci (1554-1555) e Salvatore Pacini (1558-1581), ebbero la possibilità di attingervi risorse per restaurare il palazzo vescovile e i poderi della Mensa vescovile, compreso il Mulino dell’Astrone sotto Querce al Pino, a dispetto dei danni arrecati dalla Guerra di Siena (1552-1559) e delle conseguenze politico-economiche per la città, schierata fino all’ultimo con la Repubblica senese. Va anche sottolineata la peculiare situazione dei beni della Mensa vescovile chiusina, estesi in parte fuori dai confini della Repubblica di Siena, sia nello Stato della Chiesa rimasto estraneo alla guerra (negli attuali comuni di Castiglione del Lago, Città della Pieve, Paciano e Panicale) sia nella Val di Chiana controllata da Montepulciano. Questa anomalia imponeva la buona gestione al nostro prelato, da fedele servitore degli interessi pontifici qual era, tanto più che in un disegno di ristrutturazione territoriale, frutto delle politiche papali e di Cosimo I, i beni ‘extra confine’ andarono poi a costituire il ‘serbatoio’ a cui si attinse per formare le dotazioni patrimoniali delle nuove diocesi poliziana e, nel 1601, di Città della Pieve.

Da approfondire è il rapporto tra la presenza-assenza del vescovo Ricci a Chiusi e le ambizioni territoriali di Ascanio della Corgna, nipote di papa Giulio III (di cui lo stesso Ricci era fidato collaboratore), e futuro Marchese di Castiglione, del Chiugi e Castel della Pieve (lo divenne il 17 novembre 1563 sotto Pio IV). Già nel 1550 il fratello pontefice aveva concesso a Iacopa, madre di Ascanio, a fronte di un prestito, i territori del Chiugi perugino, Castiglione del Lago, Montalera, Montecolognola e Bastia, ma il nuovo papa Paolo IV con la bolla Iniunctum nobis desuper (14 luglio 1555) invalidò le alienazioni delle proprietà ecclesiastiche ordinandone l’immediata restituzione alla Chiesa. Nel frattempo le ambizioni di Ascanio della Corgna su Chiusi ed il suo lago erano state frustrate una prima volta nel 1552, quando all’occupazione della città seguì il suo pronto rilascio impostogli dal Pontefice suo zio, e una seconda volta il 23 marzo 1554, con il tentativo di impadronirsi della piazzaforte con l’inganno trasformatosi in una clamorosa sconfitta – la maggiore subita dai Medicei nel corso della Guerra di Siena (la cosidetta «Pasqua di sangue chiusina») – e un’umiliante cattura. Le trattative condotte dai cardinali Farnese, Gualtiero e Del Monte per la sua liberazione si protrassero dal 19 maggio al 10 dicembre 1554, quando al della Corgna, tradotto in Francia dopo un fallito tentativo di fuga, fu permesso di rientrare a Roma, a condizione di non prendere parte ad azioni belliche, almeno temporaneamente, e di tornare oltralpe se lo avesse richiesto il re Enrico II, che ne aveva protratto il rilascio perché memore delle «tante sorte di disservitii» procuratigli dal capitano perugino.

Queste vicende coincidono con il momento centrale e finale dell’episcopato Ricci a Chiusi e con il papato di Giulio III del Monte. Intanto, oltre ad assolvere al meglio le sue funzioni di Tesoriere generale della Camera Apostolica e gli ulteriori incarichi amministrativi e diplomatici affidatigli anche per conto della casata del Monte, Giovanni Ricci era impegnato a edificare il suo appartamento nel complesso dei palazzi vaticani, attuale sede della Prefettura della Casa pontificia, quindi a ricavare il sontuoso Palazzo Ricci, oggi Sacchetti, ristrutturando e ampliando le abitazioni contigue e gli spazi inedificati che aveva acquistato a più riprese, a partire dall’estate 1552.

Nella stessa estate cominciarono a Chiusi i primi interventi per potenziare le difese cittadine ordinati dal Commissario senese dopo che il comandante in capo francese in Siena, Cav. Paolo di Labarthe Signore di Termes, aveva rilevato la loro debolezza, già palese nella planimetria delle fortificazioni della città ora conservata nel Gabinetto disegni e stampe delle Gallerie degli Uffizi, disegnata nel 1529 da Baldassarre Peruzzi nell’ambito di un incarico che tra le varie località lo aveva visto occuparsi anche del rafforzamento con bastioni delle mura di Torrita di Siena. Tuttavia, a distanza di un quarto di secolo gli interventi che il celebre architetto aveva proposto erano rimasti sulla carta ed altri si occuparono di tali difese, tenendo conto delle ristrettezze finanziarie della Comunità locale e poi della città dominante, quando nel 1554 essa si decise ad intervenire con proprie risorse accogliendo le ripetute richieste delle magistrature locali. In particolare vi lavorò uno specialista dell’ingegneria militare, il senese Giovanni Battista Pelori, che già alla fine del 1552 aveva «disegnato nel campo del magnifico Antonio della Ciaia, verso Borgo a Pacciano, il luogo dove si può fortificare la nostra città», come si legge in una delibera del Consiglio Generale comunitativo dell’11 novembre di quell’anno. Lo stesso Pelori effettuò sopralluoghi, ulteriori rilievi e disegni ancora nell’ottobre 1553 e nel marzo 1554. Un mese prima la città era stata inserita nell’elenco delle sedici roccaforti da mantenere in caso di invasione, anche perché a Chiusi «la muraglia era stata accresciuta per dominare il terreno esterno» e «furono costruiti estesi bastioni in terrapieno». Si trattò dunque di interventi che richiesero consistenti movimenti di terra ed il ricorso a quantitativi non marginali di pietre e mattoni, forse anche di legnami, che fu possibile reperire all’interno della città e nei suoi sobborghi.

Scrive infatti sul finire del secolo Jacomo Gori da Sinalunga, che da molti anni era Medico della città, in un manoscritto pubblicato nel primo tomo del Rerum Italicarum Scriptores di Ludovico Antonio Muratori: «… Questa Città al presente è ridotta in piccolo sito per essere stata desolata tante volte, come abbiamo detto di sopra; Gran parte della Città è quasi vota, e dove erano già alcuni antichi edifizi vi sono al presente vigne, orti, e piazze, oltre a molte case, che furno scaricate dalli Franzesi l’anno 1554, per fortificare allora maggiormente la Città, e levare gli ostacoli alla Fortezza». La notizia fa paio con l’altra riferita da Emanuele Repetti nel primo volume del suo Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana: «La distruzione dei suburbj e di alcune case presso Chiusi, ad oggetto di facilitare la difesa della rocca e rendere meno accessibile la città ai nemici, devesi ai preparativi guerreschi fatti nel 1553 e 1554 dalla Rep. Senese».

Le nuove opere di fortificazione interessarono aree prossime alle porte cittadine, concentrandosi in particolare nella parte alta del medievale Borgo Pacciano, dove a prevalere ormai erano gli spazi agricoli, ancora piuttosto frazionati: la zona che la storia ci ha poi consegnato col nome I Forti proprio per la presenza di tali opere, demolite sul finire del XVIII secolo. È qui, dove ora sono il l’ex ospedale, il Teatro Mascagni, il parco comunale ed il parcheggio, che Baldassarre Peruzzi segnala la presenza di un «Monte che fa cavaliere contra ala cipta» evidentemente anche nelle intenzioni di questo progettista destinato a costituire il nucleo strategico delle difese del settore della città rivolto verso il Passo delle Chiane; disegnata nei pressi troviamo anche la chiesa di Sant’Antonio, che sappiamo demolita («scaricata») proprio in occasione della guerra.

La zona dei Forti assume una particolare evidenza nell’ambito di quella che si deve dedurre fosse l’immagine della città di Chiusi al termine della Guerra di Siena, cioè non molto dissimile da quella raffigurata da Antonio Ruggeri attorno alla metà del XVII secolo in un disegno conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. La vista è da occidente e ruderi di mura o di altre costruzioni risultano presenti a valle della Rocca e a monte della viabilità che usciva da Porta S. Pietro in direzione nord, e appunto, in modo più articolato e imponente, all’altezza dei Forti e di quello che doveva essere il «Monte che fa cavaliere contra ala cipta», dove strutture di più epoche si sovrappongono formando una specie di massiccio fortilizio. La documentazione archeologica successiva alla spoliazione del circuito murario cittadino (tardo XVIII sec.) consente di associare i ruderi del disegno a ritrovamenti di pavimenti a mosaico e sculture marmoree, di vasche, cisterne e condotte d’acqua, che hanno fatto ipotizzare la presenza di antiche terme o di altri importanti edifici pubblici o privati in loc. Violella e nell’area dei Forti. Scoperte analoghe di resti monumentali di età romana sono state segnalate pure in altre zone della città e della campagna, si pensi agli scavi recenti nell’Orto Golini e in Piazza del Comune, a quelli novecenteschi sotto a S. Maria Novella, in Via Mecenate e Via della Misericordia, e, risalendo all’Ottocento, ancora in Piazza del Comune, a Montevenere, a Giovancorso e nell’Orto Vescovile.

Foto: Davide Zingaretti  Statua dai Forti, attualmente pronao M.N.E.C.

Dei ritrovamenti della Chiusi romana via via avvenuti nel corso dei secoli questi sono solo esempi che per tipologia e qualità dei reperti potrebbero aver alimentato e soddisfatto l’interesse di Giovanni Ricci anche quand’era ‘solo’ un alto funzionario pontificio e vescovo ‘fuori sede’ di Chiusi, ma pur sempre attento attraverso i suoi collaboratori in loco alle necessità dell’istituzione a cui era preposto e sue private. La mancanza di conferme al riguardo non deve stupire, non è una novità per l’epoca, se lo stesso si può dire dell’esatto destino e delle caratteristiche di tutte le «molte anticaglie» che al tempo in cui scrive Jacomo Gori, alla fine del XVI sec., avevano già lasciato la città.

«Non vi sono al presente molte anticaglie, perché nelle rovine che sono state fatte di essa Città, furno portate la maggior parte a Roma, ed in altri luoghi, & alcune son restate sotto terra, delle quali si trova tuttavia qualcuna, e poco tempo fa furno trovate certe Statue di marmo, quali furno mandate a Siena, & un Lucumone di metallo di mezzo braccio in circa, quale fu mandato al Serenissimo Gran Duca di Toscana. Vi sono al presente certi bagni antichi nella Rocca, & alcuni ne sono nel Giardino già del Cavalier Deifebo Dei»

(J. Gori, Istoria della Città di Chiusi in Toscana dall’anno DCCCCXXXVI al MDXCV)

L’apparente scarsa dovizia di antichità è spiegata dall’autore col trasporto «la maggior parte a Roma, ed in altri luoghi» delle «anticaglie» presenti o emerse dagli scavi, di cui doveva avere conoscenza diretta o appresa da documenti potuti consultare «favorendolo certi Letterati di essa Città»; inoltre, lui che durante la sua lunga permanenza a Chiusi era stato testimone oculare del prima e del dopo di quel sistematico saccheggio, ci offre informazioni utili a comprendere la natura dei reperti spoliati e i relativi possibili contesti di provenienza, al netto delle fantasie erudite che gli fecero immaginare Porsenna come committente anche di queste opere.

«… Vi fece fare ancora alcune piazze e pavimenti delle quali erano fatte a musaico come in alcuni luoghi si vedevano pubblicamente al tempo mio e particolarmente ve n’era in una piazzetta non molto lontana dalla chiesa di S. Francesco dei frati conventuali…»

(J. Gori, Istoria della Città di Chiusi in Toscana, passo non edito dal Muratori, trascrizione di F. Fabrizi)

Persino quando introduce nella narrazione quello che a suo dire sarebbe stato lo straordinario dono fatto da Porsenna a Tarquinio il Superbo, suo ospite, per consolarlo della cacciata da Roma, rimane il dubbio che quanto descrive abbia comunque un fondamento di realtà, la realtà di uno stato dei luoghi a lui preesistente già interpolata dal documento da cui attinse, da lui definito «un poca di cronaca quale mi fu mostrata in Chiusi dalla quale cavai poche cose per essere stracciata, et quasi tutta consumata». Il dono in questione era «un suo luogo bellissimo domandato allora valle Buta, quale era dentro la città luogo fertile, et ameno, pieno di giardini, di fonti, di Bagni, di Statue, di boschetti, et d’altri belli ornamenti, et cinto di mura intorno. […] Questa valle è hoggi vicina alle mura della città per essere stato Chiusi per molta ruina ridotto in poco sito et forte, et per andare a questa valle s’escie a quella porta che va verso Perugia. Questa valle è al presente contigua al giardino del Sig. Deio Dei quale fu già cinto di mura dal Cavalier Deifebo suo zio, dentro del quale vi sono certi Bagni antichi, et dal vulgo questa valle al presente si chiama la valle del Botusso…».

Lo stupore e, diciamo pure, l’ammirazione per quella che appare una brillante trovata scenica del Gori nel presentare la valle del Botusso ben presto sfumano se consideriamo tutta una serie di indizi, a cominciare dalla sua identificazione con il «Campo degli orefici» dove le fonti ottocentesche riferiscono di frequenti ritrovamenti, specie dopo ogni pioggia, di gioielli, medaglie e pietre incise, e poi per la presenza in corrispondenza del suo crinale occidentale della grande domus o prestigioso edificio pubblico di Via dei Longobardi, forse costruito su più livelli; per concludere si aggiunge la presenza di un’importante viabilità di fondovalle che usciva dalla porta verso Perugia nel medioevo nominata di S. Silvestro, con un ponte o meglio viadotto e collegava la città alla zona portuale su Clanis, lungo la quale si allineavano alcune delle più importanti necropoli della Chiusi etrusca e, si deve dedurre, anche i complessi cimiteriali romani, fra cui ovviamente va compresa, lungo la stessa direttrice, la catacomba di S. Mustiola. Va segnalata anche la presenza lungo tale itinerario di una delle tre fonti pubbliche della città ancora nel XVII secolo: la Fonte Durella, descritta come quella che forniva l’acqua di miglior qualità.

Appare chiara dai passi riportati la natura prevalente delle «anticaglie» trasportate lontano, vale a dire macerie di edifici, anche di pregio, fra cui dobbiamo immaginare le colonne, già nella tarda antichità e nel Medioevo oggetto di riutilizzo a Chiusi nella Cattedrale di S. Secondiano e, stando alle fonti, anche nelle chiese di S. Mustiola, demolita sul finire del Settecento, e di S. Marta, oggi S. Maria Novella, profondamente ristrutturata e ridotta ad un’unica navata, delle tre originarie, dopo che nel 1611, minacciando rovina, era stata concessa alla Comunità e quindi affidata allo Spedale di S. Maria.

L’affidabilità di Jacomo Gori come fonte di validi indizi per la ricostruzione della storia più misconosciuta dell’archeologia chiusina sembra dunque valere anche per la parte iniziale della sua opera, quella che Antonio Ludovico Muratori aveva ritenuto inopportuno pubblicare perché «abbiam giudicato espediente di togliere alcunché a principio, come troppo favoloso, e alle menzogne di finti Scrittori appoggiato».

Le sue parole aggiungono dettagli preziosi sul tessuto antico della città al suo tempo, ma anche sui primi passi della nascente “etruscheria”.

Foto: Roberto Sanchini  

Ritratto di Augusto “velato capite” da Orto Vescovile (Museo Nazionale Etrusco di Chiusi)

È il caso delle notizie sul ritrovamento da «poco tempo» di «certe Statue di marmo, quali furno mandate a Siena, & un Lucumone di metallo di mezzo braccio in circa, quale fu mandato al Serenissimo Gran Duca di Toscana» trovano puntuale riscontro in due lettere dell’Archivio Storico di Chiusi del 23 e 29 maggio 1574 per le «statue» ed in quella datata ì 24 maggio 1588 indirizzata dal Capitano di Giustizia di Siena, Lorenzo Usimbardi, al Primo Segretario del Granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici, che appunto così esordiva: «M. Francesco Pasci Cancelliere della Comunità di Chiusi et il quale fù Cancelliere delli visitatori delle Maremme m’avvisò due giorni sono trovarsi nelle mani d’un Ser Lelio Pavolozi a Chiusi una bella statua d’un hercole per quell’appareva d’oro, et anchora una Medaglia, havute da un Contadino».

Anche di recente scarichi pertinenti a lussuosi edifici di età tardo-repubblicana e imperiale hanno restituito marmi di provenienza greca, africana, mediorientale e italiana, che pure potremmo immaginare in opera nelle tavole e negli arredi intarsiati che furono il vanto e la specializzazione di Giovanni Ricci, tanto più che all’epoca del suo episcopato a Chiusi, egli non poteva avvalersi del privilegio di poter ordinare e dirigere scavi archeologici in tutta la città di Roma, che gli fu concesso solo nel 1569 da Papa Pio V, e neppure delle opportunità di acquisti offertegli dall’esercizio del suo ufficio di commissario per il risarcimento delle strade di Roma, nonché per i porti, fiumi e fonti dello Stato della Chiesa, incarico conferitogli ancora da Pio V.

È fonte di curiosità la notizia che solo cinque giorni dopo l’elezione sul soglio pontificio di Paolo IV Carafa, di cui il cardinale di Montepulciano era stato il più autorevole avversario in conclave, la Camera Apostolica abbia concesso a «monsignor Flaminio Filiuccio vescovo di Chiusi», fresco successore del Ricci alla guida della diocesi, la licenza di scavare «circum circa vineam quam habet in monte Aventino». Due le ipotesi: o il Vescovo di Chiusi, che intendeva restaurare l’episcopio, andò a cercare a Roma, in una sua proprietà, i materiali di pregio da utilizzare nell’intervento, o aveva inoltrato la richiesta su sollecitazione del suo predecessore, nel cui interesse nell’occasione agiva immaginando già il Cardinale le difficoltà innanzitutto economiche che avrebbe incontrato durante il pontificato del suo avversario Carafa, proprio mentre doveva completare il palazzo di Via Giulia. Entrambe rendono ancor più verosimile l’idea che l’episcopato di Giovanni Ricci abbia consentito a quest’ultimo di soddisfare con le «molte anticaglie» di Chiusi le proprie esigenze di collezionista e di costruttore di lussuose residenze senza doversi rivolgere oltremodo al normale mercato antiquario così fiorente a Roma. Si può inoltre ritenere che la spoliazione delle rovine sia avvenuta in misura tale che non solo dopo mezzo secolo Jacomo Gori poteva descrivere la città vuota della maggior parte delle antichità, ma anche consentire oggi a noi di affermare che essa fosse stata già completata al momento del subentro del successore. Non è un caso che ad aver restituito preziose testimonianze della città antica sono in special modo i luoghi interessati direttamente o indirettamente dai lavori di fortificazione durante la Guerra di Siena, comprese le ampie zone vuote dentro al centro storico che già alla fine del Cinquecento risultavano occupate da vigne, orti e piazze e non più dai vecchi palazzi e dalle case «che furno scaricate dalli Franzesi l’anno 1554».

Un’annotazione infine: se l’illustre poliziano è personaggio di rilievo per la Storia dell’Arte e quella del Papato, nel mondo dell’archeologia non ha goduto di buona fama, come dimostrano le parole di Rodolfo Lanciani: «Nello spianare il colle per l’adattamento della nuova villa alla Trinità (la futura Villa Medici, n.d.r.), i Ricci e il loro architetto Lippi arrecarono danni irreparabili alle fabbriche degli orti Aciliani, e specialmente al ninféo rotondo, che coronava il colle nel sito del presente “Parnaso”…». E ancora: «… io sono sicuro che una parte considerevole della somma di 250 mila scudi da lui spesa nel palazzo Ricci, nel palazzo Sangallo – Ceuli – Sacchetti, e nel casino della Trinità rappresenti appena il prezzo dei marmi di scavo coi quali le tre residenze e la cappella gentilizia in San Pietro in Montorio furono decorate».

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